Menci Sàbat e quei potenti in doppiopetto da sbeffeggiare sul Clarin

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Lo ricordo ora, mentre osservo la testa deforme del suo Bacon, il bicchiere di whisky in mano, un invito a brindare alla nostra vecchia amicizia. Al coraggio rarissimo ormai, di certo qui, utile per sbugiardare, ridicolizzare, svergognare un politico ottuso mascherato da illuminato, un fascista mimetizzato da democratico

Si chiamava Hermenegildo Sàbat. Era Menci, per tutti, tantissimi, che avevano imparato a conoscerlo attraverso le sue opere. Un vignettista satirico acutissimo, pungente; un artista straordinario. Nato in Uruguay, a Pocitos che è il quartiere fronte mare di Montevideo, 23 giugno 1933; emigrato in Argentina quando aveva già un grande avvenire dietro le spalle. I personaggi politici, i potenti da sbeffeggiare sulle pagine del Clarin, quotidiano popolarissimo laggiù; il tango, una passione; il jazz una mania. I disegni, gli acquerelli: essenziali, originalissimi.
Vidi le sue opere per la prima volta esposte in un ristorante di Buenos Aires, Lola, alla Recoleta. Lo cercai attraverso un collega che nello stesso giornale lavorava, ci incontrammo e fu amore a prima vista. Insieme ogni anno, in un tempo ormai lontano. A cena oppure nello studio a San Telmo, due passi da Plaza Dorrego, Carlos Gardel compariva e sgusciava fuori dai disegni, con quel ghigno un po’ dolente, un po’ sinistro, un re, al quale Menci aveva dedicato un libro Al maestro con amore nel 1971. Lui, Carlitos, El morocho del Abasto, smoking e brillantina, la sua voce che si fa più roca nei dischi, nelle registrazioni radiofoniche, in circolo nell’aria dello studio, per le stanze e le strade notturne, sospesa tra i palazzi decadenti, sfuggita alle persiane serrate. Una colonna sonora struggente che inchiodava quella Buenos Aires al Sudamerica, in barba ad ogni ispirazione europea. Ah, che meraviglia, che nostalgia. Un aneddoto per ogni gesto, per ogni vezzo, per ogni memoria. Il tavolo dove Ernesto Sabato e Jorge Louis Borges chiacchieravano bevendo caffè, a due passi, piastrelle bianche e nere per il pavimento consumato del bar.
Gardel, non solo. Jazzisti, le cui vite Sàbat aveva studiato nei dettagli per dare sintesi perfetta ai suoi lavori. Bix Beiderbecke, altro libro dal titolo fulminante Yo Bix, Tu Bix, El Bix (1972), un volume dal titolo Jazz a la carte del 1996 che raccoglie una quantità di opere per una quantità di storie. Con qualche debolezza: «Djiango Reinhardt, povero e geniale, non sapeva scrivere, aveva chiesto al suo amico violinista, Stephan Grappelli, di insegnargli almeno a firmare autografi col proprio nome». Non vendeva le proprie opere. Niente, guai. Lo convinsi al baratto, consegnandogli il mio (amato) orologio da polso, in cambio di un acquerello che ritrae Francis Bacon. Appese l’orologio ad un chiodo, nello studio, e là rimase, negli anni. È ancora al suo posto, forse, anche se Menci se n’è andato il 2 ottobre 2018 lasciando la traccia della sua integrità, di una leggerezza tenerissima, di quella semplicità che rende speciali le persone di talento.
La fama, più legata alle caricature, all’attualità politica di quel Paese maltrattato, alla libertà di stampa in epoche cupe, con una quantità di premi guadagnati lavorando senza paura in un’atmosfera spaventosa. Lo ricordo ora, mentre osservo la testa deforme del suo Bacon, il bicchiere di whisky in mano, un invito a brindare alla nostra vecchia amicizia. Al coraggio rarissimo ormai, di certo qui, utile per sbugiardare, ridicolizzare, svergognare un politico ottuso mascherato da illuminato, un fascista mimetizzato da democratico, un affabile mascalzone in giacca e auto blu.

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