William Webb Ellis. Il prete anglicano che (si dice) inventò il rugby

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è il rugby dei dilettanti, dei bambini, a conservare un significato educativo utile. Soprattutto qui,
in Italia, dove la cultura della “scorciatoia”, appunto, la furbizia come mezzo e poi sistema, sono imperanti. Tutta roba che in questo gioconon ha spazio e senso. Per essere un campione serve altro: coraggio, altruismo e lealtà

Si chiamava William Webb Ellis. Nato a Salford, Manchester, 24 novembre 1806. Il suo nome è inciso su una coppa importante, la Coppa del Mondo di rugby, per la quale si è giocato nelle scorse settimane in Francia. A lui, infatti viene attribuita l’invenzione dell’omonimo gioco. Pare che William, nel frattempo trasferitosi a Rugby, cittadina poco distante da Coventry, durante una partita di calcio, a scuola, si sia messo improvvisamente e misteriosamente a correre, palla in mano, per depositarla nella porta avversaria. Vero? Una balla? Mai stabilito. Col risultato di trasformare Ellis nell’inventore di una pratica che ha conquistato più di una cultura sportiva. A Rugby si trovano una targa e una statua che ricordano l’inventore, anche se erano moltissime le varianti al gioco del pallone praticate dagli studenti nel primo Ottocento.
Football, comunque, intendendo divertimenti adottati da chi “andava a piedi”, a differenza dei nobili, regolarmente dotati di cavallo. Non importa: William Webb Ellis, da allora per sempre e per tutti: prete anglicano a Londra, a Westminster, morto a Mentone, in Francia il 24 febbraio 1872. La sua tomba, un luogo di pellegrinaggio per chiunque bazzichi il mondo ovale. Come la palla, ricavata dalla vescica del maiale, adottata in via ufficiale nel 1892.
A rugby si gioca quasi ovunque. Soprattutto dove le regole, del vivere e dunque del gioco, vengono rispettate in pianta stabile. Scorciatoie? Nessuna. Tocca fare fatica per avanzare sino a superare la linea di meta, tocca passare all’indietro per concedere un vantaggio all’avversario, tocca sostenere l’ultimo e sacrificarsi per il compagno. Il tutto combattendo dentro un sistema di norme rigido che non prevede inganni. Con l’arbitro parla (poco e con rispetto) solo il capitano, per ogni genere di protesta scatta un provvedimento che obbliga l’intera squadra ad arretrare di 10 metri, chi simula perde la faccia anche rispetto ai propri compagni. Insomma, sto parlando di una vera disciplina. È sport, certo, con dentro qualche ingrediente utile a comportarsi prima e dopo ogni partita. Un contributo utilissimo alla crescita dei nostri ragazzini che con il rugby (non solo con il rugby, ovviamente, ma qui l’opportunità è più presente) fanno gruppo, sfogando e controllano la propria aggressività, apprendono il significato profondo di almeno tre verbi preziosi: condividere, appartenere, sostenere. A costo di rimediare qualche livido, qualche colpo da campo, spesso utile anche quello, per crescere con la consapevolezza che una qualche sofferenza, talvolta, serve eccome.
In Francia si sono battuti superprofessionisti dell’ovale, il livello del gioco si è alzato a dismisura negli ultimi anni, ma non è questo il punto. Piuttosto è il rugby dei dilettanti, dei bambini, degli juniores, a conservare un significato educativo utile. Soprattutto qui, in Italia, dove la cultura della “scorciatoia”, appunto, la furbizia come mezzo e poi sistema, sono imperanti. Tutta roba che in questo gioco non ha spazio e senso. Per essere un campione serve altro: coraggio e altruismo, lealtà e umiltà. Quindici giocatori. Ruoli, mansioni e caratteristiche fisiche diverse per cercare di avanzare senza barare. Nessuno è escluso, nessuno può sentirsi solo. Beh, mica male. Pensando a come procedere domani. In un ufficio, in una fabbrica, in una famiglia. Dunque, grazie Mr. Ellis, anche se non a lei solo dobbiamo una gratitudine.

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